Dove zoppica il capitalismo
Böckenförde e Bazoli: due approcci molto diversi sull’uscita dalla crisi
Leggendo Böckenförde e Bazoli, a differenza di Nicoletti che li presenta in Chiesa e capitalismo (Morcelliana, Brescia, 2010), traggo l’impressione di due approcci divaricanti. Lo è l’analisi degli ultimi decenni. Entrambi non hanno amato il dominio del pensiero neoconservatore. Tuttavia, al di là di questo denominatore, un conto è se si descrive il trentennio come una negatività e un altro se si gioca sull’ambivalenza. Nel primo caso prevarrà come prognosi l’idea di riproporre, dopo la parentesi, le tradizionali ricette socialdemocratiche, nel secondo l’esigenza di un pensiero nuovo che non azzera il passato, compresa però anche l’eredità parzialmente positiva del trentennio che declina.
Il giurista tedesco ci narra quasi solo di disuguaglianze crescenti sino all’«attuale collasso del capitalismo» (!) e ricorre allo strumentario della Dottrina sociale dicendo che tale situazione dovrebbe portarla a un’«obiezione di principio». Si arriva infine alla prognosi: una «nuova statualità» che consenta un intervento forte dello Stato nell’economia in nome della «responsabilità del bene comune e cercando di circoscrivere, orientare e pure contrastare l’aspirazione al potere economico». Cosa c’è di diverso dalla tradizionale socialdemocrazia? Nulla, tranne la dimensione: non si potrebbe più organizzare a livello di Stato nazionale ma a livello europeo. Nicoletti commenta che questa linea non arriva alla «riproposizione di un modello di Stato pianificatore dell’economia umana», ma comunque comporta «la fissazione di precisi obblighi sociali che sorreggano la responsabilità personale nei confronti del bene comune», concetti che comportano una forte pianificazione politica che prescinde da sussidiarietà e poliarchia. Viceversa Bazoli fa un elenco tutt’altro che univoco dei pregi e dei limiti della globalizzazione, a cominciare dal grande sviluppo del reddito pro capite di Cina e India, «risultati importanti che non possono in nessun modo essere disconosciuti». Meno convincente è la riduzione delle cause della crisi a un mix di regolazione troppo lasca e insaziabile voglia di profitti a breve.
In realtà il fallimento della regolazione, la vera causa della crisi, è innanzi tutto il fallimento di una politica intrusiva e imprudente, si pensi alle politiche di incentivo all’indebitamento per l’acquisto della casa. Quanto agli strumenti il richiamo alla Dottrina sociale è declinato in modo diverso, giacché si cita l’aggiornamento della Centesimus Annus che ha riconosciuto «l’efficienza dimostrata dal modello di libera economia di mercato», cosa che ha aperto «la strada a una possibile riflessione critica al suo interno e quindi costruttivamente indirizzata alla sua correzione più che alla sua confutazione». Peraltro dalla Centesimus Annus viene anche un solenne riconoscimento della «giusta funzione del profitto», pur se non da assolutizzare. Inoltre, a proposito di valore etico della crescita, c’è il tema del merito e della concorrenza (dei quali sottolinea i rischi per l’etica economica) che hanno parecchio a che fare con la crescita e della riduzione della povertà (che Bazoli riconosce alla globalizzazione). Infine, quanto alla prognosi, carica l’esigenza di far valere il bene comune non solo sulle istituzioni. «Dev’essere sempre l’orizzonte in cui si collocano le scelte che gli uomini d’impresa compiono anche nella sfera di libertà individuale che è loro riconosciuta». La riduzione delle disuguaglianze, obiettivo comune, è infatti legata in Bazoli sia alla «definizione delle regole» sia «ai comportamenti dei singoli operatori» senza che i secondi siano rigidamente predeterminati dalle prime. Mentre Bazoli si colloca quindi dentro l’orizzonte della Centesimus Annus, che rigetta le varie forme di statalismo e non solo quelle estreme, viceversa il giurista tedesco tende a chiedere una radicalizzazione della Dottrina in senso opposto. Tant’è che il modo di concepire il ruolo delle autorità sovranazionali espresso dalla Caritas in Veritate, successiva al testo di Böckenförde, va in rotta di collisione. Difficile sostenere la compatibilità tra la «nuova statualità» del giurista tedesco e il richiamo a un’autorità che è costruita e che interviene secondo sussidiarietà e poliarchia (n. 57 dell’enciclica).
Queste due posizioni rinviano a quella che Scoppola segnalava come profonda differenza nella storia del cattolicesimo politico, ovvero la valutazione sul ruolo dello Stato che emerge dalla conferenza di Dossetti del 1951 ai giuristi cattolici, che si muoveva sulla stessa linea oggi esposta dal giurista tedesco. Per Scoppola si trattava di un’impostazione che, a differenza di quella di De Gasperi, ignorava la critica liberale a una visione palingenetica dello Stato e della politica. Questo ha riflessi anche sul Pd: il punto è infatti se si tratti di sommare le due tradizioni culturali di provenienza comprendendo anche un approccio sussidiario, poliarchico e liberale.
Peraltro, come chiarito bene in uno degli ultimi testi di Ricoeur, la sottovalutazione delle potenzialità della cultura liberale risale al grave limite del pensiero personalista e della cultura del progetto degli anni ’30, legato a una lettura semplificata della crisi di quegli anni. Un limite a cui sfugge del tutto il recente e importantissimo documento delle Settimane sociali dove compaiono esclusivamente richiami a De Gasperi e Sturzo e dove le assenze pesano tanto quanto le presenze. Con Bazoli siamo in larga parte dentro questo schema, dentro una rinnovata economia sociale di mercato nella quale l’agire economico non è di per sé antisociale, con Böckenförde no, siamo dentro a una visione socialdemocratico statalista, a cui non sono tuttora estranei anche cattolici, anche se lo è diventato sempre più chiaramente e irreversibilmente il Magistero.
Stefano Ceccanti
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