Terza considerazione. La provocazione della fede orienta il realismo politico. La Pira profeta dell’ispirazione cristiana in politica come forza di trasformazione
La spiritualità politica di La Pira, come emerge con chiarezza anche da queste sue lettere, è una spiritualità incarnata e quindi impastata dei problemi storico-concreti. Ed è anche una spiritualità “schierata”: non tanto sul piano partitico (anche se La Pira è stato sempre, fino all’ultimo, anche uomo di partito), quanto su quello delle soluzioni politiche da proporre e da costruire, rispetto alle quali egli assumeva come punto di vista una serena e gioiosa fedeltà alla radicalità evangelica.
Due sono i grandi temi politici, i problemi storico-concreti, che (come emerge anche dalle lettere) hanno assillato e appassionato La Pira. Il primo è senza dubbio la questione sociale, particolarmente acuta nel drammatico dopoguerra italiano, quando “le attese della povera gente”, per richiamare il titolo di un celebre volumetto lapiriano, erano quelle del soddisfacimento, a livello di massa, di bisogni elementari: pane, lavoro, casa…
La Pira ha affrontato questi giganteschi problemi dal lato più concreto possibile, quello dell’amministrazione di una grande città come Firenze, devastata dalla guerra. Non si è rinchiuso quindi in una profezia utopica, astratta e retorica, si è sporcato le mani con la polvere della politica più concreta, quella dell’amministrazione comunale. Ma il suo realismo non è diventato cinismo, uso del potere per alimentare un consenso a sua volta finalizzato solo a conservare il potere, perché ha saputo fondarlo sulla roccia granitica della provocazione della fede.
La devozione di La Pira per la Madonna è sotto questo profilo illuminante. La giovane Maria, incinta di Gesù, è l’autrice del testo più rivoluzionario della storia umana, il Magnificat: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1, 49-54).
Nessun governo, nessuna amministrazione, potrebbe prendere alla lettera questo programma politico senza avere qualche problema nella società… E tuttavia, senza questo chiaro orizzonte, storico e meta-storico al tempo stesso, frutto della provocazione della fede – un orizzonte che fa della promozione dell’uguaglianza formale e sostanziale, cioè politica e sociale, tra gli esseri umani il principale movente dell’azione politica – il realismo politico finisce per girare a vuoto e in definitiva per divorare se stesso.
La Pira ha saputo fare della provocazione della fede la bussola del suo realismo politico. Vale per la questione sociale e vale per l’altra sua grande passione, quella dell’impegno per la pace tra i popoli.
«Alla fine dei giorni – scrive il profeta Isaia, ripetutamente citato da La Pira in queste sue lettere – il tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2, 2-4).
Anche questo grandioso brano biblico non può essere applicato alla lettera, in modo fondamentalista. Del resto, Isaia dice che tutto ciò avverrà “alla fine dei giorni”: solo nel Regno di Dio la pace sarà perfetta, così come anche il Magnificat affida alla potenza del braccio del Signore la vera giustizia. Ma questo significa che dobbiamo solo aspettare? Per La Pira la risposta è no: la giustizia e la pace sono dono di Dio, certamente. E infatti la preghiera è il vero motore della storia. Ma Dio è già al lavoro nella storia. E opera attraverso di noi, attraverso le nostre imperfette e precarie conquiste quotidiane.
Non a caso, il brano di Isaia, nella sua versione in lingua inglese, è scolpito nel marmo lungo la First Avenue a New York, di fronte al Palazzo di Vetro, la sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Nell’operosa attesa del ritorno del Signore, che sarà unico giudice tra le genti e metterà definitivamente al bando la guerra, si può cominciare, con l’aiuto della preghiera, a far vivere una sede, certo imperfetta e precaria, nella quale viva il diritto internazionale come strumento privilegiato per dirimere le controversie tra i popoli: al posto della guerra. E si cerchi così di ridurre le spade e aumentare i vomeri, di ridurre le lance e aumentare le falci, preparando le vie del Signore.
Il 10 dicembre 2009, a Oslo, nel ricevere un discusso premio Nobel per la pace, Barack Obama richiamava il senso di questa faticosa conquista: «Sulla scia di una distruzione tanto vasta (come quella della seconda guerra mondiale, ndr), e con l’avvento dell’era nucleare, divenne chiaro sia ai vincitori che ai vinti che il mondo aveva bisogno di istituzioni che prevenissero un’altra guerra mondiale. E così, venticinque anni dopo la bocciatura da parte del Senato americano della Lega delle Nazioni (un’idea per la quale Woodrow Wilson vinse questo premio), l’America guidò il mondo alla costruzione di un’architettura per mantenere la pace: il piano Marshall e le Nazioni Unite, strumenti per regolare la guerra, trattati per difendere i diritti dell’uomo, impedire genocidi e limitare le armi più pericolose.
Sotto molti punti di vista, questi sforzi hanno avuto successo. Sì, sono state combattute guerre terribili e sono state commesse atrocità. Ma non c’è stata nessuna terza guerra mondiale. La guerra fredda si è conclusa con folle entusiaste che distruggevano un muro. I commerci hanno legato insieme gran parte del pianeta. Miliardi di individui sono usciti dalla povertà. Gli ideali di libertà, autodeterminazione, uguaglianza e Stato di diritto si sono fatti timidamente strada».
Questa esperienza, commenta Obama, ci dice che, «concretamente, dobbiamo indirizzare i nostri sforzi al compito che il presidente Kennedy invocava molto tempo fa. “Concentriamoci – diceva lui – su una pace più pratica, più raggiungibile, basata non su un improvviso capovolgimento della natura umana, ma su una graduale evoluzione delle istituzioni umane”».
Ma nessuna evoluzione, guidata dal realismo politico, sarebbe possibile, senza la provocazione della fede. Obama continua la sua riflessione a Oslo ricordando il martire della protesta non violenta dei neri d’America, l’uomo senza il quale egli non sarebbe mai diventato presidente degli Stati Uniti: «Come disse Martin Luther King in questa stessa occasione molti anni fa, “io rifiuto di accettare la disperazione come risposta finale alle ambiguità della storia. Rifiuto di accettare l’idea che la presente natura umana, che preferisce ‘le cose come stanno’ ci renda moralmente incapaci di conseguire l’eterno ‘dover essere’ con cui dobbiamo sempre confrontarci”. E dunque – conclude Obama – sforziamoci di conseguire il mondo come dovrebbe essere, quella scintilla del divino che ancora brilla in ognuna delle nostre anime».
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