Con la Resurrezione, che sancisce la morte della morte, la speranza diventa la condizione specifica e naturale del cristiano il quale ormai – secondo l’Apostolo – può sperare contro ogni speranza: speranza che non è conquista dell’uomo e virtù morale, ma dono di Dio e virtù teologale.
Commento apparso su Avvenire-Bologna7 sulla predica del Card. Caffarra del 4 ottobre 2008, giorno di S.Petronio, patrono di Bologna.
Professor Ivano Dionigi, direttore e animatore del Centro Studi «La permanenza del Classico» dell’Università di Bologna
«La Chiesa cosa fa, che cosa può-deve fare per la crescita della città?» A questa domanda, improntata a forte generosità e responsabilità pastorale, il Cardinale, in sintonia con l’enciclica «Spe salvi» di Benedetto XVI, risponde: «la Chiesa assicura all’uomo il diritto di sperare … E solo l’uomo capace di sperare è capace di costruire la città».
Risposta, questa, che oltre a confortare ogni uomo di buona volontà, interpella chi per mestiere e vocazione frequenta la classicità. Si è soliti ripetere che i Classici sono fondativi del nostro pensiero, ma dimentichiamo di aggiungere che essi sono anche antagonisti della nostra visione, in particolare di quella cristiana. Il tema della speranza ne è un bell’esempio. I Classici greci e latini non conoscono la speranza. Nec spe nec metu, «vivi senza sperare, vivi senza temere»: questo è il loro imperativo categorico. Carpe diem, «cogli l’attimo» sentenziava l’epicureo Orazio; protinus vive, «vivi senza indugio» ammoniva lo stoico Seneca. Per essi solo il presente esiste e il futuro non è che l’insensata proiezione del presente: non esiste una speranza che consoli dal dolore e liberi dalla morte; pura illusione, incantesimo, dulce malum.
Assente nel mondo classico, la speranza irrompe nella storia con la Rivelazione cristiana: il futuro si fa presente, il non-ancora si identifica con l’oggi, la profezia si realizza. Con la Resurrezione, che sancisce la morte della morte, la speranza diventa la condizione specifica e naturale del cristiano il quale ormai – secondo l’Apostolo – può sperare contro ogni speranza: speranza che non è conquista dell’uomo e virtù morale, ma dono di Dio e virtù teologale. Qui – come ci ricorda Agostino – sta tutta la distanza tra la «voluntas» del «sapiens» classico e la «gratia» del credente cristiano.
L’uomo moderno, con l’illuminismo e i suoi derivati incentrati sulla palingenesi sociale, conoscerà la versione laicizzata di questa speranza: egli avrà come valore assoluto il progresso e come habitat naturale il futuro, nel quale si iscrivono l’ideale scientifico, l’accrescimento del sapere e le utopie che insidiano e svalutano il presente.
Ma oggi, dal momento che i viali del futuro si sono drasticamente e drammaticamente accorciati e noi sembriamo guariti dalle ustioni dei vari -ismi, forse si danno delle condizioni psicologiche e storiche sia per rivalutare la dimensione del presente secondo la saggezza classica, sia per ripensare il valore della speranza secondo il messaggio cristiano.
Come ridurre l’ingiustizia, il dolore, la morte individuale? Come allargare gli orizzonti vitali per questa città? Come capire che il mondo non va solo amministrato e interpretato ma anche cambiato e salvato? A queste domande diurne e notturne di ognuno di noi, tutti siamo chiamati a rispondere coralmente: credenti e non credenti.
Ma al credente, forte della fede nell’Altro e mosso dalla carità verso l’altro, è chiesto – è mia opinione – un compito aggiuntivo: assicurare la speranza per tutti.
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